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Molti anni dopo, di fronte a Valdir Peres, giocando contro il Brasile nello stadio Sarrìa di Barcellona, Paolo Rossi si sarebbe ricordato di quei remoti pomeriggi in cui suo padre lo portava, con la Vespa, a vedere la Fiorentina in curva Fiesole. Prato era allora una piccola città di artigiani della stoffa, costruito sulle rive di un fiume che era servito, in tempi antichi, ai tintori per la fabbricazione delle giubbe rosse dei garibaldini e dei “panni bleu” per le truppe regie. Giocare a calcio era per lui una cosa così potente che, quando voleva farlo, indicava la palla con il dito.

Il 1982 è l’anno in cui Gabriel Garcia Marquez vince il premio Nobel.

Il 1982 è l’anno in cui Paolo Rossi vince il Mondiale di calcio.

Che cosa è questo realismo magico? O almeno che cosa significa per noi europei questo momento in cui la storia e il sogno si intrecciano in un modo che diventa indistinguibile? Lo racconta Alessandro Baricco, spiegando perché, paradossalmente, proprio i colombiani non capiscano che cosa noi chiamiamo realismo magico perché per loro, quel concetto, è un normale andazzo delle cose. «È che siamo poveri e abitiamo una terra complicata, mi ha spiegato una volta un poeta di quelle parti. Quindi le notizie non viaggiano, il sapere si sfarina, e tutto si tramanda nell’unica forma che non conosce ostacolo e non costa niente: il racconto. Poi, con una certa coerenza, mi ha raccontato questa storia vera (ma vera, lo capite, da quelle parti è una parola piuttosto evanescente). Un paese sulla costa, per la festa grande, ingaggia un circo della capitale. Il circo si imbarca su una nave e fa rotta verso il paese. Non lontano dalla costa, però, fa naufragio: tutto il circo va a fondo, e le correnti se lo portano via. Due giorni dopo, in un paese vicino (ma vicino, da quelle parti, significa poco, perché se non c’è una strada che spacca la foresta potresti essere anche a mille chilometri), i pescatori escono la sera a tirare le reti. Non sanno niente dell’altro paese, niente del circo, niente del naufragio. Tirano su le reti e dentro ci trovano un leone. Non fanno una piega. Tornano a casa. “Com’è andata oggi?” avranno chiesto al pescatore, a casa, tutti intorno al tavolo, a cena. “Ma niente, oggi abbiamo pescato leoni.” Noi, questa cosa, la chiamiamo realismo magico. Capite bene che quelli non capiscono.»

Nel 1982 la nazionale di Enzo Bearzot tornò in Italia con le reti piene non di leoni, ma di palloni. Di quei dodici palloni in rete, sei, i più importanti, li aveva insaccati Paolo Rossi, anzi paolorossi, portando l’Italia al trionfo mondiale, regalando la prima infinita gioia collettiva a un Paese che chiuse, in quel modo, l’orrore degli “anni di piombo”. Sì, i sociologi sostengono che quel periodo di dolore, di morte, di stragi finì proprio nell’estate del 1982. È bello pensare che un contributo fondamentale a scrivere la parola fine al periodo più buio della storia italiana dal dopoguerra lo abbia dato paolorossi, un ragazzo gentile, minuto, che aveva, anche lui, saputo attraversare la sofferenza.

Gabrielgarciamarquez e paolorossi sono il realismo magico applicati alla letteratura e allo sport. Sono una benedizione, un regalo al mondo espresso attraverso due forme d’arte. Beati i colombiani ad aver avuto Gabo, beati noi ad aver avuto Pablito. La letteratura e il calcio, grazie a loro, sono stati balsamo per le nostre anime.

D’altronde «le cose hanno vita propria, si tratta soltanto di risvegliargli l'anima» come scrive Gabriel Garcia Marquez nella Macondo dei suoi Cent’anni di solitudine e come Paolo Rossi è riuscito a fare su dei campi da calcio spagnoli, in quei sei indimenticabili giorni del luglio del 1982.

1982
DI EUGENIO CARENA

Sarà il vento,

calda carezza di velo indiscreto

a portare il mio sorriso fino a te

mentre mi volto e ti guardo

la mia fragilità frantumata dalla vittoria

negli attimi che precedono la storia

un bambino smagrito dai passi incerti

che diventano il segno indelebile

del mio lieve giocare

mentre raccolgo la sfida

le eterne giornate assolate

la pioggia che mi rimbrotta

in un tuono bonario che non mi spaventa,

la vita mi porta lontano in un giro di giostra

di città in città fino ad essere uomo.

Cadere feriti nella gioia che sfuma

rialzarsi stranito dal troppo livore

crederci ancora fino a sentirsi male

fino a ritornare vivo, ad essere io

e ascolterai il mio nome

scuotere un cielo azzurro di stoffa

increspato di cristalli di sale

costellazione di orgoglio

che esplode in un coro

tutto l’amore di cui avevamo bisogno

la notte che scende regala mai paga

il respiro immortale del gesto

che le attese rifonde e che

non confonde nel rimanere per sempre.

PODCAST - EXTRATIME PAOLO ROSSI