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IL CUORE DENTRO ALLE SCARPE

A sentirli dalla finestra della canonica, sapevano di primavera. Sarà che, come una volta le rondini o le api, anche loro sciamavano fuori appena annusavano la stagione mite. Non che la pioggia li fermasse mai davvero, in quei casi erano piuttosto i genitori – le mamme, soprattutto, dato che erano loro a liberare i calzoni dal fango.

Correvano a casa dopo la scuola, con la cinghia del tascapane che quasi gli segava il collo per la foga di arrivare. Mollavano gli strumenti del mattino e poi via di nuovo, fino alla soglia di quel campo di calcio che vedevano solo loro. Sullo sfondo la canonica di don Sandro, tutt’intorno gli ulivi prossimi alla potatura.

Sull’immaginaria linea di bordocampo i ragazzini sciamanti si fermavano, ligi a regole che si erano dati una sola volta, e i due più svelti facevano le squadre. Nessuna divisa a disposizione, le squadre si distinguevano tra chi aveva la maglia al dritto e chi se la girava al rovescio.

Dalla finestra della canonica don Sandro si godeva lo spettacolo di quell’annuncio di primavera. I primi due ragazzini a essere messi in squadra correvano a recuperare due cippi a testa, due massi, ed ecco che posizionati a dovere diventavano pali di una porta regolamentare, con tanto di rete e traversa.

Dopo le prime partite in cui nessuno lo aveva preso sul serio, Paolo il mingherlino, Paolo con le gambette magre ma scattanti come le zampe di un grillo, era sempre tra i primi a finire in squadra. Si era conquistato prima la fiducia e poi l’ammirazione a suon di gol, gol, gol.

Paolo – Paolino, in realtà, perché davvero era piccoletto – per giocare a calcio aveva calzoni e canottiera bianchi di sartoria, non perché il tenore della famiglia gli concedesse abiti su misura, tutt’altro, ma perché la mamma, sarta di mestiere, sapeva far fruttare al meglio le sue capacità e gli avanzi di stoffa. I vestiti dei due fratelli Rossi erano sempre impeccabili, non fosse per quel giro di terra smossa e sudore che si impastava ogni volta che vedevano un pallone.

Se i vestiti non erano un gran problema, a esserlo erano le scarpe: quelle mamma Amalia non poteva farle, e dunque toccava metterle per intero nel bilancio della famiglia. Con Paolo in casa, le scarpe finivano sulla lista delle spese fin troppo spesso, perché il ragazzino di strada ne faceva, eccome se ne faceva! Di corsa, in dribbling, scartando, palleggiando, con le finte, scivolando… C’era di che stressarsi se si era un paio di scarpe di Paolino.

Il padre Vittorio - che di mestiere faceva il ragioniere e per passione aveva lo sport, tutto lo sport, dal ciclismo al calcio – la domenica portava Paolo sulla vespa, da Prato a Firenze, per vedere la Fiorentina. Paolino, i capelli scompigliati dal vento e le manine che si stringevano attorno al busto del padre, era piccolo d’età e di statura ma grande nel sognare, e nel tragitto da casa allo stadio si immaginava i segreti dei campioni, si vedeva dentro uno spogliatoio di talenti a calzare scarpini da calcio, si chiedeva come sarebbe stato uscire dal tunnel che porta in campo, si sognava a risolvere partite importanti, si domandava se l’azzurro della maglia della nazionale sarebbe mai stato alla sua portata. Sognare in grande sembra costare poco, ma non è così. Se il sogno rompe la bolla dell’impossibile per mettere radici nel possibile, ti tocca assecondare le sue esigenze, e Paolo lo fa. A meno di dieci anni già viveva come un calciatore professionista: alimentazione sana, allenamento il più possibile, e poi a letto presto. Una vita da adulto che non gli pesava e, anzi, era l’unico modo per lui – con il senno di poi si direbbe “il modo dei campioni”.

Papà Vittorio era complice di questa passione, non solo si portava il figlio allo stadio a vedere le meraviglie di Kurt Hamrin, ma aveva intravisto il potenziale del figlio e teneva un quaderno in cui si annotava partita per partita quello che Paolino combinava in campo, dai gol alle azioni, fino alle pedate che gli avversari gli davano per tenerlo a bada.

Vittorio poi dedicava una grande attenzione per la cura delle scarpe di tutta la famiglia: le puliva e le lucidava con ostinazione perché, diceva, “i piedi a posto sono sempre un bel biglietto da visita”, ma soprattutto perché le scarpe erano per lui “l’anima delle persone”. E una sera, di fronte all’ennesimo paio di scarpini da calcio rotti in meno di un mese, il biglietto da visita di Paolo era ben poco onorevole, e la sua anima, be’, chissà dove doveva essersi nascosta. Davanti a quel disastro mamma Amelia impose una punizione esemplare: una settimana senza oratorio, una settimana senza scorrazzare nel campo tra gli ulivi, una settimana senza calcio. Una settimana senza gol.

Una punizione che il bambino innamorato del calcio, mezzo secolo dopo, ancora si ricordava: una settimana senza scendere in campo! Il fato lo tenne fuori dal campo altre volte ben più dolorose, ma lui sapeva che era lì che doveva restare, con il cuore dentro alle scarpe, a correre più veloce del vento.