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una biografia metropolitana

Secondo Wikipedia, il cognome più diffuso in Italia è Rossi, in ben 4572 comuni per un totale di 60.487 famiglie. A una di queste famiglie è toccato in sorte di dare un fratellino al primogenito Rossano. Il 23 settembre del 1957 era domenica, l’ora del campionato quando, in quel di Prato, Paolo Rossi fa il suo ingresso in questo mondo, per non lasciarlo mai più.

Paolo – o meglio, Paolino – è un ragazzino vivace che si innamora del pallone fin da subito, come suo fratello Rossano. Giocano a calcio all’oratorio Santa Lucia, una frazione di Prato, e Paolino consuma una quantità incredibile di scarpini, cosa che grava sul bilancio famigliare non poco. La famiglia Rossi non è una famiglia abbiente: il papà, Vittorio, lavora come ragioniere in un’azienda tessile e la mamma Amelia fa la sarta. Che entrambi i loro figli abbiano a cuore lo sport è normale, in famiglia si è amanti delle competizioni sportive e soprattutto di nazionale, tanto che è proprio il tricolore quello che Paolino vorrebbe indossare, prima o poi. A scuola è bravo, curioso, ma se si deve pensare al futuro lui se lo immagina diverso da quello che gli disegnerebbe la mamma: lei lo vorrebbe con un lavoro stabile e sicuro, magari a fare il ragioniere; lui invece si vorrebbe sull’erba di un campo di calcio.

Il desiderio di Paolino ha senso, perché quando gioca a calcio ha una marcia in più degli altri: talvolta è come se vivesse un istante nel futuro tanto gli riesce naturale trovarsi nel posto giusto e al momento giusto. Questo suo talento non passa inosservato e se anche la carriera sportiva non è ancora la strada definitiva, intanto arriva il primo tesserino con la Cattolica Virtus, a Firenze. Nel giro di poco si accorgono di Paolino anche un po’ più a nord, a Torino: la Juventus lo vorrebbe per un periodo nelle giovanili. Se anche Paolino partirebbe seduta stante, le cose non sono così semplici, occorre pur sempre convincere a quel distacco – e alla prospettiva di quella vita – i genitori di un ragazzino di appena quattordici anni!

Tuttavia la trattativa va in porto, e Paolino da Prato si ritrova ben presto a far la spola tra Pinerolo, dove va a scuola, e Villar Perosa, dove si allena. La squadra è contentissima di Paolo, un piccoletto che sguscia via come una saponetta, ma le storie devono farsi sempre complicate perché siano memorabili, ed ecco che nel giro di due stagioni si rompe tre menischi. Il dolore fisico, la paura di non tornare ai livelli che una maglia seria richiede, l’impazienza, gli scarpini che seppure non sono appesi al chiodo accumulano comunque polvere. Ma Paolino alla fine torna. Il suo cartellino appartiene alla Juventus, che però lo manda a Como con l’idea di rifarsi le ossa; solo che al Como Paolino si fa più panchina che ossa e alla fine tenta il tutto per tutto e chiede di essere mandato ovunque, basta che possa stare in campo. E ovunque sia: finisce in B, in prestito al Lanerossi Vicenza.

Vicenza è, per Paolorossi, un nuovo turning point . Non solo scende in campo ma, per necessità di squadra, Gibbi Fabbri, l’allenatore, gli toglie la maglia da ala tornante e gli mette quella di centravanti. Una novità per il giovanotto di Prato, che lì per lì non si sente all’altezza ma poi gli torna il vizio del gol, tanto che chiude la stagione in B come capocannoniere aggiudicandosi la castagna d’argento e trascinando il Lanerossi dritto in serie A. Questo è anche il periodo del militare: cartoline, berretto da bersagliere, foglio di congedo illimitato sono tutti lì a imperitura memoria. Nel 1977 debutta a Damasco con la Nazionale militare ai mondiali in Siria.

Nella stagione successiva gli standard già altissimi della serie B si ripetono: Paolorossi è di nuovo capocannoniere e il Vicenza arriva al secondo posto, dietro alla Juventus. Con questa sfilza di successi è inevitabile che Bearzot lo convochi per Argentina 78, e seppure la prestazione di Paolino è straordinaria sappiamo che non è quello il suo Mondiale, anche se è in Argentina che il ragazzo nato con il nome di Paolo, per tutti Paolino, e cresciuto prima come Paolo Rossi e poi Paolorossi, tutto attaccato, diventa ufficialmente Pablito.

Dopo il Vicenza, Pablito è pronto a segnare un altro traguardo nella storia del calcio e dello sport in generale: è a Perugia che, per lui, ci si inventa la prima sponsorizzazione di maglia. Sono gli anni delle figurine e delle pubblicità, gli anni in cui Pablito è sulla cresta dell’onda, quelli in cui le ragazze si innamorano del suo sorriso timido e in cui tutti si chiedono dove arriverà la carriera di questo ragazzo gentile.

Eppure, la storia di Paolorossi sembra scritta da una writers’ room di sceneggiatori davvero bravi. Bravi e spietati. Perché è così che si scrivono le storie migliori: con un pizzico di cattiveria nei confronti dei protagonisti, perché più grandi sono i guai con cui hanno a che fare, più gloriosa sarà la vittoria. Alla fine del 1979 viene coinvolto suo malgrado in uno scandalo di calcioscommesse, una cosa in cui finisce invischiato per ingenuità e che, alla fine, gli costa due anni di squalifica. Due anni di squalifica a 23 anni, mentre sei il calciatore più in vista del campionato, sono una botta dura da digerire. Significa allenarsi senza la prospettiva di una partita, rinunciare al gol, rimandare l’adrenalina da competizione a data da destinarsi; soprattutto, significa che il resto del mondo andrà avanti, che la Nazionale andrà avanti, mentre lui starà a guardare senza prospettive, senza più obiettivi.

Per fortuna ci pensa Bearzot a dargliene uno: lui crede alla sua innocenza, gli ha sempre creduto, e gli promette che lo porterà in Spagna, ai Mondiali del 1982, se si farà trovare pronto dal punto di vista fisico. Il che vuol dire chiedergli di allenarsi con la stessa determinazione di chi in campo ci va tutte le domeniche. Pablito ce la farà?

Domanda retorica: noi che siamo qui sappiamo bene cosa è riuscito a fare.

Il 1982 è stato l’anno di E.T. l'extra-terrestre, l’anno di Thriller, l’anno del Commodore 64; è stato l’anno in cui Paolorossi torna a indossare gli scarpini e la divisa della Nazionale, segna tre gol al Brasile e poi finisce con l’alzare al cielo la Coppa del Mondo di calcio, l’anno in cui gli viene scattata la foto con cui desidera essere ricordato, l’anno in cui nasce il suo primo figlio, Alessandro (Sofia Elena e Maria Vittoria arriveranno più avanti), l’anno in cui vince il pallone d’oro; è stato l’anno in cui Gabo ha vinto il premio Nobel per la Letteratura, l’anno del realismo magico.

Ecco, la storia di Paolorossi sembra scritta da Gabo.

Pablito appende gli scarpini al chiodo relativamente presto, la carriera resa breve dalla storia clinica dei menischi e delle ginocchia. Una carriera breve in cui però è stato in grado di vincere tutto ciò che un calciatore possa sognare di vincere, sia a livello personale sia collettivo.

Soprattutto, ha vinto l’affetto eterno di tifosi e tifose, persino l’ammirazione di coloro che aveva fatto piangere; il mondo gli ha dedicato una quantità e una qualità di francobolli che fa girare la testa ai filatelisti. Si è cantato di lui e con lui, ha avuto molti amici e con tutti sapeva mantenere rapporti sinceri, con la semplicità imparata sul campetto polveroso di Santa Lucia, dove l’aria odorava di olive e per fare le porte bastavano due pietre.

Di lui si è scritto tanto, ma la biografia più intima, più personale, è "Quanto dura un attimo", scritta insieme a sua moglie Federica Cappelletti. Un giorno, di fronte a un caffè, un ricordo è riaffiorato forte nella mente di Pablito. Federica ha visto il guizzo, ha riconosciuto lo sguardo di chi è pronto a raccontarsi dall’inizio, e hanno colto la palla al balzo.

se al posto del pallone

Ma la prima volta, la prima in assoluto che un pallone è rotolato fino ai piedini di un Paolino Rossi che non aveva ancora trovato l’amore per il calcio, come sarà andata? Immaginiamolo piccolo, molto piccolo, facciamo un anno o poco più? A malapena stava in piedi da solo ed ecco che una domenica, mentre la famiglia Rossi andava alla messa, la straordinaria parata del portiere improvvisato al campetto dell’oratorio butta la palla sulla strada che conduce al sagrato. Il pallone fa quello che fanno i palloni: rotola. Rotola e tra l’attrito dell’erba, la coda di un cane, il tocco imperfetto del chierichetto in ritardo, il pallone finisce davanti ai piedini di Paolino, chiusi nei sandali della domenica, con i calzetti bianchi di cotone.

“Dai” gli dice il babbo Vittorio, che calcia l’aria per fagli vedere cosa fare.

“Dai” ripete il fratello Riccardo, che ha una voglia pazza di darlo lui il calcio a quel pallone, ma si gode quella prima volta del fratellino.

“Palla!” fanno sapere dal campo.

“Dai che si fa tardi” dice Amalia su un rintocco di campana.

E Paolino? Paolino che fa? Prende la misura, carica indietro il piedino e tunk, colpisce la palla. Il contraccolpo su un piede soltanto, piccolo così, lo fa cadere sul sedere. Ma non fa mica male, anzi, è la sensazione più bella del mondo, danzare con il pallone. Certo, dovrà capire come calibrare meglio il colpo, come restare in piedi dopo averlo dato, come decidere dove mandare la palla anziché scoprirlo a cose fatte. Pochi anni e farà tutto.

Ma come sarebbero andate le cose se al posto del pallone si fosse innamorato d’altro?

Se avesse amato il violino, sarebbe stato Nicolò Paganini.

Se avesse amato la matematica, sarebbe stato Archimede.

Se avesse amato navigare, sarebbe stato Ferdinando Magellano.

Se avesse amato la scultura, sarebbe stato Gian Lorenzo Bernini.

Se avesse amato la chitarra, sarebbe stato Francisco Tárrega.

Se avesse amato il cinema, sarebbe stato Steven Spielberg.

Ma ha amato il calcio, ed è stato Paolorossi.

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