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le fiabe sono vere

“Io credo questo: le fiabe sono vere scriveva Italo Calvino.

Dunque sono veri il bosco fatato e il palazzo incantato, veri gli antri oscuri e i draghi che li abitano, vere le maledizioni e vere le profezie.

Se la fiaba è vera, il reale si infila nella fantasia e inizia ad abitarlo con gli strumenti del quotidiano: fagioli, arcolai, manici di scopa, calderoni, macinini, persino scarpe di ogni foggia e dimensione.

Gli stivali che il gatto chiede al figlio del mugnaio o quelli che Pollicino sottrae all’orco, le scarpette rosse che non smettono di danzare o quelle d’argento che permettono a Doroty di tornare a casa, in Kansas, le scarpette di cristallo che mostreranno al principe, alle sorellastre e al mondo intero l’unicità di Cenerentola.

E sono veri gli scarpini di Paolorossi, che nel 1982 hanno accompagnato passo dopo passo non solo Pablito nella sua avventura, ma tutto il mondo a innamorarsi del calcio italiano attraverso la fiaba di un ragazzo di paese che da un oratorio di campagna, respirando l’aria aspra di una terra che coltiva gli ulivi e ascoltando il suono ritmico di una macchina da cucire, è salito fin sul tetto del mondo, cucendosi addosso la divisa del campione, a raccogliere i frutti dolci di chi è riuscito coltivarsi i sogni.

Sappiamo bene che è la bacchetta che sceglie il mago, e seppure quegli scarpini avrebbero svolto un buon lavoro ai piedi di altri artisti del pallone, è il connubio con Pablito che ha portato tutto a un livello superiore. Il mondiale del 1982 non era cominciato nel migliore dei modi, per lui.

Ricorderà infatti che la sua autostima era bassa ma la fiducia illimitata che Bearzot nutriva nei suoi confronti fu fondamentale.

“Non so quale altro allenatore avrebbe continuato a schierarmi titolare, mentre un’intera nazione lo martellava in modo asfissiante affinché cambiasse idea […] La prima rete contro il Brasile è stata la più importante della mia carriera, perché mi ha ridato fiducia in tutti i sensi. Un gol, quando arriva, è come la manna dal cielo per un attaccante […] Da quel momento in poi, è stato come se qualcuno dall’alto si fosse preso cura di me. Non c’era nulla che andasse per il verso giusto e, all'improvviso, il vento girò. Un gol può essere rivoluzionario e, a me, ha letteralmente cambiato la vita".

Nella notte di quei tre gol rivoluzionari che, a lui, hanno letteralmente cambiato la vita, Pablito indossava questi scarpini. Proprio questi.

fargli le scarpe

Questa espressione, “fare le scarpe a qualcuno”, è entrata nel linguaggio comune con un’accezione negativa. Lo sappiamo: fare le scarpe significa imbrogliare, magari scalzare una persona dal posto che occupa.

L’espressione potrebbe essere nata in ambiente militare o, in alternativa, nelle cerchie di signorotti e notabili del Diciassettesimo secolo. Nel primo caso (per quanto non sia una prova ma solo un sacco di indizi) abbiamo visto un mucchio di film, soprattutto war movies, in cui chi resta in vita ruba le scarpe (o gli stivali) ai soldati rimasti uccisi; Rossellini in Paisà ci fornisce un esempio meno truce: il piccolo Pasquale, orfanello napoletano, ruba le scarpe a Joe, un soldato americano, approfittando non della sua morte ma della sua ubriachezza. Per quanto riguarda il secondo caso, invece, pare che ci fosse l’usanza tra persone di un certo rango di farsi seppellire indossando scarpe nuove; in quel caso, fare le scarpe a qualcuno poteva essere un presagio, un auspicio, una minaccia. In tutti questi casi, comunque, c’era poco da stare allegri.

Per fortuna, a parlar bene delle scarpe nuove ci si mette gente del calibro di Ettore Petrolini, che in quella che probabilmente è la sua canzone più celebre ci fa sapere che “Basta la salute e ’n par de scarpe nove e te pòi girà tutt’er monno”. Dunque, queste scarpe nuove in grado di far girare il mondo a chi le indossa, qualcuno dovrà pur farle, in senso letterale.

Vediamo un pezzetto della filiera che serve per fare le scarpe a qualcuno, la formeria.

Ce n’è una rinomata nel cuore dell’Italia, a Forlì; si chiama Formeria Romagnola e il caso vuole appartenga a una famiglia Rossi: niente a che vedere con Pablito e i suoi, ma come sappiamo “Rossi” è il cognome più diffuso in Italia.

La formeria, come si capisce dal nome, prepara le forme delle calzature.

Immaginiamo la tecnica tradizionale. In passato le forme si facevano in metallo e solo dal Sedicesimo secolo si è iniziato a farne di legno (per differenziare la destra e la sinistra siamo dovuti arrivare al Diciannovesimo secolo). Prima dell’avvento della plastica (riciclata) si partiva da un pezzo di legno, un bel parallelepipedo a cui con maestria e tanta pazienza si toglieva l’eccesso fino a raggiungere una forma soddisfacente sia per la calzata sia per l’estetica. Con le scarpe lo sappiamo tutti, anche un solo millimetro può fare la differenza tra un mal di piedi e una scarpa comoda, tra una zoppia e una camminata fluida. Nel caso di Paolorossi, la differenza tra un gol (e poi un altro, e poi un altro) o un’occasione mancata. E quindi via con le raspe di diverse grane, carta vetrata e mani sapienti, fino a tirare fuori da quel blocco di legno – che in potenza aveva molto, da un burattino a un modello di scarpa – la forma perfetta.

Una volta che la forma è pronta, liscia e levigata, viene siglata con un numero identificativo (e progressivo). Nell’archivio storico della Formeria Romagnola non è conservata solo la numero 1, ma forme di tutti i tipi e modelli, persino scarpe da clown o punte per la danza classica. Scarpe Prada, Harley Davidson, Louis Vuitton, Rita Ora… e poi le scarpe di: Kevin De Bruyne, Samuel Jackson, Kevin Durant, Michel Platini, Giovanni Paolo II.

E ovviamente, con il numero di serie 22712, c’è anche la forma per le scarpe di Paolorossi.

Chissà: un po’ delle emozioni che Pablito ci ha dato sono passate anche per chi gli ha fatto le scarpe.

PODCAST - GLI SCARPINI DEL MONDIALE DEL 1982